Cinema e paesaggio dell’Emilia Romagna

 

 

 

Mauro Conti

 

 

 

 

 

 

 

Il cinema può, a buon diritto, essere considerato un’arte guida dell’espressività italiana, proprio come lo sono state la musica operistica nel Romanticismo e l’architettura durante il Rinascimento; è raro, non di meno, che esso figuri come strumento didattico tanto nella scuola media quanto nella superiore. Le ragioni di questa latitanza sono forse da attribuire alla difficoltà di organizzare delle visioni didattiche in aule poco attrezzate, ma anche alla scarsa conoscenza storica, oltre che geografica, del nostro patrimonio filmico. Il percorso didattico che qui viene presentato intende indagare i rapporti tra arte cinematografica e paesaggio dell’Emilia Romagna, in particolare il litorale, l’entroterra ravennate ed il Delta del Po, così come essi sono stati svolti da tre registi come Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Michelangelo Antonioni; i film scelti sono, nell’ordine, Ossessione, Paisà e Deserto Rosso.

 

Quello proposto è un percorso all’interno di un laboratorio didattico integrato di storia e geografia e va, quindi, subito precisato che, anche in relazione agli obiettivi prefissati, il nostro lavoro, più che di un percorso estetico narrativo strutturalmente organizzato, avrà il suo fine precipuo nella definizione degli elementi fondamentali della griglia storico geografica di cui i film sono testimonianza . In sostanza, fatte le debite premesse, i film verranno utilizzati più per la loro forte valenza documentaria e meno come frammenti di un discorso poetico. Del resto, la capacità di pensare il paesaggio non come il mero fondale di un dramma è prerogativa dei grandi registi che abbiamo analizzato e ogni altro percorso che non ne includesse la citazione, il riferimento, ci sarebbe apparso meno convincente al nostro fine.

 

Rappresentare il paesaggio, vederlo, significa in qualche modo possederlo. E’ noto come, specialmente nella pittura italiana, le prime rappresentazioni affrescali di paesaggi o di città avessero la funzione simbolica della rappresentazione del dominio. In sostanza si mostrava, sia nella rappresentazione laica come in quella ecclesiale, il simbolo di un possesso al fine di consacrarlo al controllo sociale. Vedere è al contempo un controllare ed un essere. Il Guido Riccio di Simone Martini è il signore di un paesaggio la cui rappresentazione ne simbolizza la potenza. Il Potere e la  rappresentazione vedutistica; “tutto ciò che vedi ti appartiene…” sembra voler dire il Principe e, allo stesso modo, se si scorre la pittura del medioevo, si vedono Santi che tengono in mano la forma miniaturizzata di una città come consacrazione della loro protezione. I luoghi comuni sono letteralmente lo spazio rappresentato di un dominio simbolico della collettività e non solo dei loci retorici… ma, se questo è vero, allora lavorare sulla percezione dello spazio ed in particolare dello spazio paesistico significa lavorare sull’essere, definire il significato di una identità collettiva che è allo stesso tempo lo spazio di una individualità, il suo statuto costitutivo nel gioco della riflessione simbolica.

 

Non è un caso se con le scoperte geografiche si afferma anche la tipologia della rappresentazione cartografica. Non solo strumento di osservazione scientifica, il vedere affina la volontà di potenza, e struttura il nucleo della persona, come nota uno storico come Lucien Fevre: Singula cernere et omnia circumspicere.

 

 

 

È, forse, nel Settecento che si afferma la veduta, o meglio la rappresentazione paesistica come genere autonomo, privato. Gli aristocratici che vengono in Italia per il loro Grand Tour sviluppano una attitudine documentaria del rappresentare nei pittori che lavorano per loro. Richiedono souvenir, memoria, ma anche il repertorio documentario di una passione didattica, di un amore per la sapienza, la bellezza. Il paesaggio diventa pittoresco e si avverte quasi un’esigenza enciclopedica che mira a cogliere ogni aspetto del reale come nel celebre, anche se a noi contemporaneo, personaggio di George Perec ne La vita: istruzioni per l’uso. Ben presto il romanticismo manderà in frantumi certe geometrie e ordini razionali e la storia del guardare, come la storia delle idee e degli uomini che le incarnano, sarà una storia di naufragi dove affonderanno i gesti emotivi e sentimentali di un Turner, di un Constable, di un Friedrich, per non dire degli incubi di un Füssli.

 

 

 

Prima ancora che in Italia si affermi la civiltà di massa che modifica radicalmente il concetto di visione ci sono gli impressionisti ed i pittori del naturalismo italiano. Se possibile, come ricordava Federico Zeri, è proprio su questa estetica che noi troviamo un legame con le guide del neo-realismo cinematografico.

 

L’Italia umile ed impegnata del tempo postrisorgimentale, l’Italia laica, realista e socialista sembra ritrovarsi nel cinema del secondo dopoguerra nella poetica pasoliniana, ma ancor di più entro la visione di Visconti, Antonioni, Rossellini.

 

 

 

Il paesaggio, come ricorda Tomas Maldonado nell’ introduzione al catalogo della mostra Paesaggio: immagine e realtà[1], può essere visto come un frammento della natura che i meccanismi selettivi della percezione visiva hanno reso appunto frammento, cioè parte isolata dal contesto della realtà ambientale; un paesaggio la cui descrizione è possibile solo in termini visivi; un paesaggio che ha trovato sempre nella rappresentazione figurativa della natura, a prescindere dal mezzo di raffigurazione adoperato, la sua più congrua espressione. Ma il paesaggio può essere visto anche come un momento di un più vasto e mai interrotto processo formativo, un processo costitutivo e organizzativo della realtà ambientale, un momento che si prefigura come parte attiva di un sistema di rapporti complesso la cui descrizione e spiegazione involve anche le scienze della natura, la geografia fisica. Dunque nel concetto di spazio c’è un modo di percepire il reale; ma quali e quanti sono i modi di guardare all’Italia?

 

L’Italia, prima ancora che come unità ideale, storica, sociale, si è affermata come unità geografica. In luogo della disunità linguistica, di quella immagine centrifuga e policentrica dell’Italia, frutto della sua plurisecolare storia, troviamo la persistenza e la durata del quadro geografico in cui si collocano gli avvenimenti della sua storia.

 

 

 

Il paesaggio è dunque un panorama denso di segni e popolato di voci, di trame fitte e articolazioni. Il cinema neorealista, mentre si accosta a questo ambiente, ne avverte l’autonomia e l’individualità, e reagisce secondo una modalità indipendente e più forte dei singoli osservatori e delle singole poetiche: lo lascia parlare. Il cinema neorealista offre la parola al paesaggio, lascia aprire il cuore alle cose per permetter loro di rivelare il segreto della più intima natura che si risolve in una relazione spaziale. Paesaggio come stratificazione di segni senza aggettivi, agglomerato di sensi, intenzioni, finalità, quasi senza una traccia che li precisi, un movimento che li raccordi, uno stato comune che li armonizzi e li faccia concorrere verso una medesima manifestazione sensoriale, emotiva, gnoseologica. E’ dentro questa prospettiva che va collocato il cinema di Rossellini, ma da qui si vede anche Visconti.

 

 

 

Prima di addentrarci nelle schede dei film, e chiarire il taglio critico con il quale si è scelto di guardarli, occorre forse precisare che questo scritto è da considerarsi propedeutico al lavoro più propriamente operativo e orientato alla didassi dell’insegnante, il quale, dopo averli rivisti, sceglierà le scene che meglio aderiscono al suo progetto didattico e l’utente al quale riferirli. Il nostro lavoro, giova forse ricordarlo, non aspira ad altro che a fornire diversi ed interdisciplinari strumenti alla costruzione degli obiettivi didattici e delle competenze programmate.

 

 

OSSESSIONE di Luchino Visconti

 

Produzione: Industrie Cinematografiche Italiane. Anno: 1943

 

Regia: Luchino Visconti. Soggetto: ispirato liberamente dal romanzo “ The postman always ring twice “ di James Cain. Sceneggiatura e dialoghi: L.Visconti, Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Mario Puccini con la collaborazione non accreditata di Rosario Assunto e Sergio Greco. Direttore fotografia: Mario Tonti, Domenico Scala: Musica: Giuseppe Rosati diretta da Fernando Previstali. Montaggio: Mario Serrandrei. Costumi: Maria De Mateis. Ass.regia: Antonio Pietrangeli.

 

Interpreti principali: Massimo Girotti ( Gino Costa ) Clara Calamai ( Giovanna Bragana ) Juan De Landa ( Giuseppe Bragana, suo marito ) Dhia Cristiani ( Lucia ) Elio Marcuzzo ( Giuseppe Tavolato detto “lo spagnolo” ).

 

Note: Distribuzione: I.C.I. Durata: 112’ Il film prima della presentazione ufficiale nelle sale cinematografiche ha subito parecchie traversie, ha subito parecchie traversie: a Milano venne visto soltanto nel maggio del ’44, a Roma nell’aprile del ’45, dopo la liberazione.

 

 

 

Soggetto: In una trattoria della Bassa Padana giunge un giovane vagabondo che viene ospitato in casa dello stesso padrone. L’uomo, durante un assenza del padrone, diviene l’amante della moglie, una donna molto sensuale e insoddisfatta. I due meditano la fuga ma il tentativo va a vuoto ed il giovane riprende la sua strada. In treno incontra un reduce della guerra di Spagna che gli fa intravedere delle possibilità di vita in Grecia ma egli non si convince a seguirlo anche perché è ancora innamorato della donna. Per caso in città incontra i coniugi. Il marito, che ha molta stima di lui, lo invita a ritornare a lavorare alla trattoria e a vivere con loro. La passione si riaccende in modo talmente intenso che la donna riesce a convincere il giovane a sbarazzarsi del marito simulando un incidente d’auto. Consumato il delitto è il momento dell’ossessione per il giovane che vive nel rimorso e nella paura di essere scoperto dalla polizia. Egli ha il sospetto che la donna lo abbia spinto al delitto per incassare l’ingente premio di assicurazione sulla vita dell’anziano marito. Si allontana nuovamente da lei ma per ritornare dopo poco alla notizia che la donna aspetta un bambino. Con la riconciliazione decidono poi di fuggire e di andare a vivere in un altro luogo ma durante la fuga il camion si cui sono si ribalta e la donna muore. Inoltre sopraggiunge la Polizia che ha il mandato di arrestare l’uomo con l’ accusa di omicidio.

 

 

 

Ritornare a Visconti significa cercare una nuova rappresentazione del paesaggio in Italia. Il cinema prima di Visconti è il cinema dei telefoni bianchi, il cinema della propaganda e degli eroi fascisti che stampano la loro facciona sui campi lunghi e arditi della battaglia. Con Visconti abbiamo una rappresentazione intima e sofferta del paesaggio padano. Fino alla fine degli anni trenta lo scenario cinematografico della pianura padana è uno scenario buio, uno scenario lontano dai centri produttivi cinematografici, annegato in una geometria di linee orizzontali di scarsa resa plastico figurativa: una censura dello sguardo, dei processi produttivi e delle convenzioni del visibile dissolta nel ’42 da Visconti. Il vagabondaggio di Gino in Ossessione, il suo aspetto disordinato ci riporta a un disequilibrio indispensabile rispetto allo sviluppo del dramma. Qui il paesaggio padano è come un operatore testuale. La campagna viene rappresentata come un contesto rurale ( una strada piatta e bianca, degli alberi, un fiume, un tratto di terra pianeggiante ) riproposti con una persistenza figurativa che fa loro raggiungere l’astrazione dei segni. Inoltre, le inquadrature sulla campagna sono attraversate da due uniche linee compositive: una orizzontale ( la trattoria, la fila d’alberi, la linea dell’orizzonte ) e una verticale ( la strada e il fiume ) al centro della quale si dispongono i personaggi ripresi secondo lo schema della prospettiva centrale. Inquadrature chiuse, delimitate ai bordi come da una cornice. La strada è sempre deserta, la trattoria visitata da rarissimi clienti, sbucati dal nulla e pronti a scomparire in un fuori scena mai nominato. In città invece c’è la folla, il traffico, la disposizione delle strade e delle case. Le scene di campagna sono dominate dal contrasto fondamentale di bianco e nero ( bianco della strada e nero dei personaggi) dalla opacità costante, senza nitore ed immobilismo figurativo, lo stesso che si incontra nella trattoria. I personaggi sembra quasi che non vedano la campagna. La campagna è lo spazio dello sprofondamento, dell’immobilismo, della chiusura, della morte.

 

 

 

Alberto Moravia rilesse la sceneggiatura di Ossessione che venne firmata da Gianni Puccini, Visconti e De Santis. Da Il postino suona sempre due volte di James Cain era stato ridotto in film in francese e solo Visconti lo aveva visto; egli fece la scelta del paesaggio padano. A quel tempo, sulla rivista “Cinema”, si conduceva una polemica per il ritorno del cinema ad una verità italiana. Gino era un irregolare come Jean Gabin avversato dal mondo delle convenzioni borghesi, brusco, schietto, anarcoide che amava la vita randagia, l’irriverenza, il vagabondaggio per strade desolate o per periferie dove incontrare il fiore raro dell’amore, un amore che strascina sempre dietro la morte. Ci sono anche reminiscenze di Quai de brumes, 1938, Le jour se lève e la Bète humaine del 1939. Qui la donna viene vista come inizio di distruzione e nodo dannato di sentimenti. Donna pigra, sensuale e calcolatrice, mentre l’uomo è libero, forte e vittima. C’è una insistenza espressiva sul materiale plastico e ambientale. Il fondale che fa da basso continuo alla vicenda dei protagonisti, e che non è di cartapesta, è la strada che appare subito attraverso il cristallo anteriore di un camion, il Po coi greti sabbiosi, le osterie popolari, i giardini di Ferrara presso il Castello, i vicoli e le piazze affollate di biciclette, la fiera all’aperto, le camere squallide, il porto di Ancona, le viuzze malfamate e il Duomo stagliato contro il cielo, gli scompartimenti di legno di terza classe. Il cinema di allora era il cinema dei telefoni bianchi o delle opere nazionalistiche. Se vogliamo c’è la fine dell’ambiente piccolo borghese nazionale e della visione accademica del mondo nello squallore di orizzonti piatti e desolati e nei personaggi inseriti in esso. L’opera distrugge i riposi ed i nascondigli dell’arcadia, il conformismo del quieto vivere provinciale fascista e la sua autarchia. Un'Italia inedita mai vista nei documentari Luce. Gino: ” Qui non succede mai niente…Poter di nuovo guardare in faccia la gente senza paura”.

 

Uomini vivi nelle cose. Animazione dell’ambiente. Movimento doppio dal personaggio all’ambiente e dall’ambiente al personaggio. L’ambiente si incorpora con la forma umana del protagonista, diventa una sua metafora, quinta o coro e si spinge fino ad assumere dimensioni irreali per far dominare l’empito e lo sfolgorare del personaggio.

 

PAISA’ di Roberto Rossellini

 

Produzione: Roberto Rossellini per O.F.I. con la collaborazione di Rod e Geiger. Anno 1946

 

Regia: Roberto Rossellini Soggetto: Sergio Amidi, Federico Fellini, Marcello Pagliero, Victor Alfred Haynes, R.Rossellini. Sceneggiatura: Amidei, Fellini, Rossellini. Direttore fotografia: Otello Martelli. Musica: Renzo Rossellini. Voce narrante: Giulio Panicati.

 

Interpreti: Episodio “Appennino Emiliano”: William Tubs ( Bill Martin, cappellano militare ) Newell Jones ( cap. Jones, cappellano protestante ) Elmer Feldman ( cap. Feldman, cappellano ebreo) e autentici monaci francescano di un convento di Maiori ( Salerno ).

 

Episodio” Porto Tolle”sul Delta del Po: Dale Edmonds ( Dale, l’americano dell’O.S.S ) Cingolani ( lui stesso) Robert Van Loel ( il tedesco ) Alan e Dane ( due soldati americani) altri attori: Iride Belli, Antony La Penna, Fattori.

 

Note: Distribuzione: M.G.M. Durata: 134’ Nastro d’argento per la migliore musica e la migliore regia. Vasco Pratolini collaborò alla sceneggiatura dell’episodio fiorentino.

 

 

 

Il film racconta in sei episodi l’incontro tra soldati americani che risalgono la penisola combattendo tedeschi e italiani. Di paisà in paisà, l’obiettivo della cinepresa di Rossellini trascorre su di un paesaggio rovente di guerra, gravido di dissoluzione, disperazione, miseria. La critica disse che Rossellini aveva scandalizzato l’Italia con la sua “antiretorica”, ma chi aveva vissuto l’esperienza del conflitto non si scandalizzava proprio di nulla e, semmai, un nuovo punto di vista gettava uno sguardo come un rasoio sulle scelleratezze del passato.

 

Paisà è costruito come una raccolta di novelle sulla lotta partigiana, calata in diversi contesti geografici dell’Italia della fine del 1944. Sesto episodio è lo scenario del Po. Uno scenario che già dalla prima sequenza sembra in grado di restituirci nella ricchezza e nella ripetizione i suoi tratti essenziali. In campo lunghissimo qualcosa succede nella corrente, in mezzo al fiume, avanzando lentamente verso la macchina da presa. Leggera panoramica da destra sinistra fino a quando, in primo piano, possiamo leggere la scritta nera su fondo bianco “partigiano”. Un istante poi il cartello, infilato in un salvagente insieme con un uomo, esce di campo a sinistra. Successivamente, negli undici piani che seguono e che accompagnano lo scorrere sempre più lento del cadavere lungo il fiume, scopriamo un paese basso disteso sulla sponda opposta del fiume ed un gruppo di abitanti del luogo e di tedeschi e di donne in scialle nero che camminano mute lungo l’argine e ancora pescatori, bambini e una riva che va sempre più allontanandosi sullo sfondo e un canneto che chiude alla vista il fiume. Si è parlato di rappresentazione cronachistica del paesaggio in Paisà, documentario, reportage, cronaca in presa diretta. Neutralità di riprese, assenza di processi formali di costruzione. La costruzione del racconto, in realtà, si affida ampiamente all’ellissi e alla giustapposizione di blocchi di sequenze autonome non direttamente ricucibili secondo nessi causali. Una strada, un argine un canneto, una capanna, non sono immediatamente ed esplicitamente preordinati ad alcuna funzione diegetica che li decontestualizza attribuendo loro lo statuto di segni e mantenendo intatto il loro potenziale autonomo di significazione. Vuoti, pause, scollamento del racconto ma persistenza dei tratti paesistici. Paisà è la storia di un fiume che scorre verso il mare.

 

A. Bazin: ” Nello splendido episodio finale dei partigiani accerchiati nella palude, l’acqua limacciosa del delta del Po, le canne a perdita d’occhio alte abbastanza da nascondere gli uomini accovacciati a piccole barche piatte, lo sciacquio delle onde contro il legno hanno un posto in qualche modo equivalente a quello degli uomini. A questo proposito va segnalato che questa partecipazione drammatica della palude è dovuta ad alcune qualità molto intenzionali della ripresa. La linea dell’orizzonte è sempre alla stessa altezza e questa permanenza della proporzione dell’acqua e del cielo attraversa tutte le inquadrature del film fa emergere uno dei caratteri essenziali di questo paesaggio.”. Anche la funzione del sonoro risulta decisiva: i rumori delle barche a motore, gli spari e le voci, lo sciacquio del fiume che giungono dal fuori campo consentono al paesaggio di dilatarsi e di espandersi in tutte le direzioni oltre la inquadratura. Il paesaggio è restituito in una sorta di esperienza percettiva, la voce del paesaggio insomma, l’alone del fiume. Analogie tra elementi tematici e figurativi.

 

In Rossellini c’è una assenza di subordinazione tra personaggio e paesaggio, una fusione dei due elementi nell’inquadratura. Rossellini cerca la voce del paesaggio. Antonioni, quindici anni dopo, sulla scorta di questa lezione si inoltrerà sull’analisi della zona inesplorata dei sentimenti visti nella loro dimensione comportamentale, nella prospettiva di un neorealismo interiore.

 

 

DESERTO ROSSO di Michelangelo Antonioni

 

Produzione: Angelo Rizzoli per Film Duemila ( Roma ) e Francoritz ( Parigi ) Anno 1964

 

Regia: Michelangelo Antonioni. Soggetto e Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra. Direttore fotografia: Carlo Di Palma.

 

Interpreti principali: Monica Vitti ( Giuliana ) Richard Harris ( Corrado ) Carlo Chionetti ( Ugo, il marito ) Xenia Valderi ( Linda ) Rina Renoir ( Emilia ) Lili Rehims ( moglie dell’operaio ) Valerio Bartoleschi ( Valerio, figlio di Giuliana ) Aldo Grotti ( Max ) Emanuela Paola Carboni ( ragazza della favola ) Giuliano Missirini ( operaio del radiotelescopio )

 

Note: Distribuzione: Cineriz Durata: ‘120 Girato dall’ottobre ’63 al marzo ’64 a Ravenna ed in Sardegna nell’isola Budelli. Presentato al XXV Festival del Cinema di Venezia dove ha ottenuto il Leone d’oro. Ha ottenuto anche il Nastro d’argento per la migliore fotografia a colori.

 

 

 

Soggetto: Giuliana, sposata ad un ingegnere, dopo uno choc subito in seguito ad un incidente d’auto è colpita da una profonda crisi depressiva. L’ambiente della cittadina industriale dove il lavoro del marito la porta vivere, non fa che acuire il suo stato. Un breve rapporto con Corrado, l’amico del marito, non l’aiuta ad uscire dall’angoscia dei suoi incubi e, quando l’uomo parte, per Giuliana non c’è che smarrimento e vuoto.

 

 

 

Per Antonioni il paesaggio è essenzialmente un luogo dell’anima, ne rappresenta il vuoto, è un luogo misterioso, il luogo di una avventura. Disumana civiltà delle macchine e condizione dell’uomo contemporaneo, ma anche una nuova sensibilità cromatica nella rappresentazione del paesaggio.

 

Nei film di Antonioni le parole non sono che un commento alle immagini, un sottofondo. Antonioni vuole distruggere nella parola la reminiscenza letteraria e lasciare solo l’effetto cinematografico. Verginità del guardare perché è dall’ambiente che vengono i frutti migliori. Sentire l’ambiente senza i personaggi e le persone. L’ambiente in sé, Ravenna, le sue valli, sono il regesto di una assenza che dissolve nel nulla. Deserto rosso era nato come un film da fare a colori ma nel bianco e nero c’è una irrealtà che piace di più. Deserto Rosso è anche un film sulla nevrosi di una donna, le nevrosi che toccano, che cozzano, farfalle impazzite, i confini sconfinati dell’anima.

 

Il grigio, la nebbia del paesaggio padano sono come la base di tutte le sequenze del film, ricorda il direttore della fotografia Carlo Di Palma. “Era un periodo in cui tutto quello che accadeva intorno a noi era anormale. I rapporti tra individuo e ambiente ed individuo e società erano forse la cosa più interessante da esaminare. La realtà era scottante e vi erano fatti e situazioni eccezionali. Il film neorealista tratta dei rapporti dell’individuo con la società. Io arrivai nel 1950, dice Antonioni, e quella fase cominciava a dare segni di stanchezza. Ora importante diventa esaminare il personaggio, andarvi dentro per vedere che cosa, di tutto quello che era passato - guerra, dopo guerra- era rimasto dentro.” Inquadrature molto lunghe sui personaggi fatte di carrelli e panoramiche: il famoso piano-sequenza di Antonioni che fa del paesaggio uno spazio della interiorità, il teatro di un conflitto indecidibile. Racconta il grande ferrarese: “Accadeva questo: quel paesaggio che fino ad allora era stato un paesaggio di cose, fermo e solitario: l’acqua fangosa e piena di gorghi, i filari dei pioppi che si perdevano nella nebbia. L’isola Bianca in mezzo al fiume a Pontelagoscuro che rompeva la corrente in due, quel paesaggio si muoveva si popolava di persone si rinvigoriva. Le stesse cose reclamavano un attenzione diversa, una suggestione diversa. Guardandole in modo nuovo me ne impadronivo. Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo l’immagine, la sua forza, il suo mistero. Appena mi fu possibile tornai in quei luoghi con una macchina da presa.” Tornare a guardare la realtà con la “macchina da presa”, dunque esplorare, con una nuova consapevolezza, il paesaggio dell’alma mater emiliano romagnola come non lo avevamo mai esplorato.

 

 

 

Mauro Conti

 

 

 

Bibliografia:

 

 

 

Un sito fondamentale, per capacità e completezza, da cui trarre notizie e documentazione sul cinema in Emilia Romagna è:

 

 

 

http://www.cinetecadibologna.it/

 

L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1969 a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi. Milano Feltrinelli 1981

 

 Carlo Lizzani, Il cinema italiano, 1895-1979 Editori Riuniti, Roma 1979

 

 Gian Piero Brunetta, Buio in sala, Cent’anni di passioni dello spettatore cinematografico, Marsilio Editori, Venezia 1989

 

 Dizionario del cinema Italiano, I film ( 1930-1969 ) Roma 1993

 

 Pio Baldelli, Luchino Visconti, Milano 1973

 

 P.Sorlin, Sociologia del cinema, Milano 1979

 

 Rossellini, Triologia della guerra, Bologna, 1972 

 

A. Bazin, Che cos’è il cinema. Milano 1973

 

M. Antonioni, Postfazione a sei film, Torino, 1964

 

G. Romano, Studi sul paesaggio, Torino 1978

 

Cesare De Seta, Presentazione nel volume Il Paesaggio in Annali 5, Storia d’Italia Einaudi.

 

 Introduzione al catalogo della mostra, Paesaggio: immagine e realtà pubblicato da Electa.

 

 Il Po si muove: da “Ossessione” a “Paisà” risalendo fino a “Il grido”di Giovanna Grignaffini in Paesaggio: immagine e realtà.

 

G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano Bari 1991

 

[1] Introduzione al catalogo della mostra, Paesaggio: immagine e realtà pubblicato da Electa.

 

 

 

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